La Chiesa Santuario del Corpus Domini di Bologna in via Tagliapietre subì danni gravissimi dai bombardamenti del 1943, e in gran parte fu distrutta.
L’edificio, di fondazione quattrocentesca, è famoso per l’importante portale in terracotta, attribuito allo Sperandio, arricchito anche dai contributi di Marsilio Infrangipani da Firenze, tagliapietra, e di Tommaso Filippi da Varignana – per la decorazione. Oggi si tende ad attribuirlo a maestranze d’ispirazione toscana. E’ comunque anch’esso un omaggio all’Eucaristia, per la presenza di un cartiglio metallico eucaristico su cui è dipinta un’Ostia raggiante, a completamento del calice che corona la lunetta in cotto.
Il portale che oggi vediamo è stato parzialmente ricostruito grazie alla perizia e cura della Soprintendenza, diretta da Alfredo Barbacci (1896–1989), che recuperò i pezzi del prezioso manufatto quasi sbriciolato dai bombardamenti.
Si può dire che valga la pena di guardare questo portale quattrocentesco non solo per il suo pregio artistico iniziale, ma anche proprio per questa opera di ricostruzione: ridotto in frammenti dalla distruzione della facciata, in sedici mesi questi vennero recuperati dal mucchio delle macerie, individuati e catalogati, poi saldati con resine e graffe di rame. All’interno della chiesa sono alcune foto della situazione dopo i bombardamenti, a memoria del danno e insieme della appassionata perizia della ricostruzione.
Non si può comunque vedere più quanto è stato distrutto: non per questo i bolognesi affollano di meno la chiesa, che è prima di tutto Santuario dedicato a Santa Caterina da Bologna, morta nel 1463 e canonizzata nel 1712, detta semplicemente “La Santa”, con nome esteso anche al santuario.
I due temi fondamentali per questa splendida chiesa sono la Santa stessa, e l’Eucaristia il Corpus Domini cui è dedicata.
Cominciamo dalla Santa, di cui vediamo il corpo incorrotto nella sua cappella all’interno del santuario, alla quale si può accedere, quando non sia aperta, semplicemente suonando il campanello delle monache: tra l’altro rileviamo che questa cappella è una delle poche parti cha hanno attraversato indenni le distruzioni belliche.
Santa Caterina de’ Vigris o Vigri, o santa Caterina da Bologna, visse tra il 1413 e il 1463.
Nata a Bologna l’8 settembre da padre ferrarese (Giovanni de’ Vigri aveva una casa in Bologna) e da Benvenuta Mammolini, bolognese, fu poi allevata alla corte di Ferrara: il padre era al servizio di Nicolò III d’Este, signore di Ferrara, e Caterina fu compagna di giochi di sua figlia Margherita. Caterina crebbe dunque in una corte non solo splendida, ma colta e ricca di stimoli spirituali, nella quale la devotio moderna, con la sua attenzione all’essenza del Cristianesimo e agli strumenti ascetici che ne promuovevano una viva esperienza.
Sposata la giovane Margherita d’Este, Caterina scelse la vita religiosa nel 1426, a tredici anni, e seguì un gruppo di pie donne ferraresi che vivevano in comune e seguivano la Regola agostiniana. Più tardi, fra il 1431 e il 1435, il gruppo si stabilì nel monastero delle clarisse del Corpus Domini a Ferrara, che seguiva rigorosamente la Regola e in cui erano entrate molte nobildonne. Qui rimase venticinque anni, fino al 1456, svolgendo le mansioni di fornaia e portinaia, ma anche di maestra delle novizie, in povertà, umiltà, penitenza, ubbidienza, e mostrando sapienza e carità. Pronunciò i voti nelle mani del vescovo di Ferrara, il beato Giovanni Tavelli da Tossignano. A questo periodo si riferiscono molti eventi prodigiosi.
Miracoli si riportano circa la sua obbedienza e il suo lavoro come fornaia: il pane che non bruciò, mentre lei ascoltava un fervoroso predicatore che si dilungava, è detto “Pane dell’obbedienza e del miracolo”.
Nel 1431 ebbe una visione sul giudizio finale. La terrificante scena dei dannati la spinse a intensificare preghiere e penitenze per la salvezza dei peccatori. Il demonio continuò ad assalirla ed ella si affidò in modo sempre più totale al Signore e alla Vergine Maria.
Annunciò la caduta dell’Impero ottomano che avvenne nel 1453.
Tormentata da dubbi sull’Eucaristia: ebbe una Rivelazione, e le rimase il desiderio intenso della comunione frequente
Nel 1455, a Natale, ebbe in braccio Gesù. Voleva recitare mille Ave Maria, in preparazione del Natale. E’ la famosa pia pratica delle Mille Ave Maria, per cui, recitandone quaranta ogni giorno nei 25 giorni che precedono il Natale, cominciando dal 19 novembre, si giunge a recitare mille Ave la notte di Natale.
Le fu particolarmente vicina Illuminata Bembo, novizia veneziana, che divenne la sua biografa nello “Specchio di illuminazione”.
Amò il canto, la poesia, la pittura, che aveva appreso nel mondo, e ne usò per render gloria a Dio, e trasmettere la bellezza di un’esperienza mistica eccezionale, e manifestò doti di sapienza.
Scrisse “Le sette armi spirituali”, difesa dell’anima nel viaggio verso Dio (consegnate al confessore in punto di morte): la diligenza, la diffidenza verso le proprie forze, la confidenza in Dio, non dimenticare mai la passione di Gesù Cristo, non dimenticare mai la propria morte, non dimenticare mai la gloria di Dio, non dimenticare mai l’autorità della Sacra Scrittura.
Suggestivo è il modo in cui chiamava le letture quotidiane del Vangelo: “lettere del celeste Sposo”.
Nel 1456, su richiesta dei magistrati bolognesi che volevano nella città un convento come quello del Corpus Domini di Ferrara, fu inviata come badessa a Bologna, con l’incarico di fondare un monastero.
Il viaggio da Ferrara a Bologna fu effettuato sul Canale Navile, e Caterina giunse con 12 professe, due converse e una terziaria, cioè la sua stessa madre Benvenuta, le religiose furono trionfalmente accolte dal Cardinale Legato Bessarione. Si stabilirono in un primo momento nell’Ospedale della chiesa di Sant’Antonio di Padova, ma il Card. Bessarione assegnò poi loro il convento di San Cristoforo delle Muratelle o di Saragozza (tenuto dai frati di San Girolamo di Fiesole): questa chiesa si trovava all’attuale angolo fra via Urbana e via Boccadilupo; abbattuta la chiesa ed edificato il monastero delle Clarisse, questo venne dedicato al Corpo di Cristo, al Corpus Domini.
Negli anni seguenti il convento fu ingrandito, si costruirono il chiostro e la chiesa interna.
La Santa vide l’inizio della edificazione della chiesa, iniziata nel 1477, ma non ne vide la fine, nel 1480: visse solo per pochi mesi, prima della morte, nella sua cella situata nel chiostro vecchio; la cella era illuminata da due finestrelle ancora oggi intatte e riconoscibili in quanto più piccole delle altre finestre, ingrandite da interventi abusivi recentissimi
Caterina morì il 9 marzo 1463 (era un mercoledì, a ore 15) a soli 49 anni mentre era badessa (nel maggio susseguente morì sua madre).
Scrisse, oltre al trattato ascetico Le sette armi spirituali, il Rosarium, poema teologico di oltre 5000 versi; i Dodici giardini lettera-trattato sull’amor sacro.
Le sue virtù: povertà, penitenza, obbedienza, umiltà, sapienza e carità.
“Io sono in vita per la perseveranza nella preghiera… la preghiera è vita… maestra… consolazione…rifugio… riposo… bene… ricchezza… apre i cieli e confonde i diavoli… scaccia via ogni tentazione e ogni divagazione della mente; dà volontà di praticare l’obbedienza, di stare volentieri in cella, di amare la santa povertà; infiamma all’amore divino e toglie lo amore del mondo. Non esiste alcun altro mezzo, di qualunque specie e condizione si voglia, con il quale si possa ottenere l’amore di Dio, migliore della devota, umile, continua, violenta e forzata orazione. Per cui, sorelle, tenete per certo che nessuna grazia discende all’anima, se non per mezzo dell’orazione”.
Altri episodi della sua vita:
Estasi durante la messa: al Sanctus ode la musica e il canto degli angeli e prova una dolcezza tale che dice che l’anima tende a uscirle dal corpo.
Vigilia di Natale del 1445: tiene Gesù fra le braccia. Poi dipinge spesso Gesù.
Dopo una gravissima malattia, rapita in visione, vide Dio, la Madonna, i Santi e gli angeli, e uno cantava suonando la viola: “E la sua gloria sarà vista in te” (“et gloria eius videbitur in te”: come si legge nella scritta sopra le sue reliquie). Dopo questa visione, rimase per mesi in letizia, ripetendo spesso il canto con la sua viola. A chi le chiedeva come poteva stare in raccoglimento, rispondeva: “Subito sono congiunta a Dio”.
Da superiora a Bologna era la prima nella preghiera e nel servizio; viveva in profonda umiltà e povertà. Allo scadere del triennio di abbadessa fu felice di essere sostituita, ma dopo un anno dovette riprendere le sue funzioni, perché la nuova eletta era diventata cieca, e sebbene sofferente per con gravi malanni, svolse il suo servizio con generosità e dedizione. All’inizio del 1463 le infermità si aggravarono; verso la fine di febbraio fu colta da forti sofferenze, che non la lasciarono più: era tuttavia lei a confortare le consorelle nel dolore, assicurando che le avrebbe aiutate dal cielo. Il 25 febbraio 1463 tenne un discorso di tre ore alla comunità, annunciando la sua morte e dando loro le sue ultime volontà. La prima domenica di Quaresima fu colta da dolori fortissimi e dovette mettersi a letto, da dove non si rialzò più. Dopo aver ricevuto gli ultimi Sacramenti, consegnò al confessore lo scritto “Le sette armi spirituali” ed entrò in agonia: guardò ancora con amore le consorelle e spirò dolcemente, pronunciando tre volte il nome di Gesù: era il 9 marzo 1463. Alla sua morte cominciò subito a realizzarsi una profezia nella quale si era sentita dire dagli angeli: Et gloria eius in te videbitur.
Come narrano i registri dell’epoca, avvennero subito eventi miracolosi: guarigioni ottenute tramite semplici preghiere e una sorta di “misterioso splendore che si diffondeva dalla tomba”.
Le suore si pentirono di averla sepolta senza una cassa (era per altro uso comune seppellire i monaci senza cassa, in segno di umiltà) che ne preservasse le “delicate membra” e così dopo 18 giorni dalla sua morte chiesero il permesso al loro confessore di poterla riesumare e riseppellire in modo più onorato.
Il 21 marzo iniziarono i lavori di sterro, ma scoppiò un violentissimo temporale che durò sino all’una di notte, quando le monache si riprecipitarono nell’orto “incuranti del buio e del fango e delle molte pozze stagnanti” e freneticamente, con badili e mani nude, si rimisero a scavare per tirar fuori la Badessa prima che venisse inghiottita dal fango: con stupore si accorsero che il corpo era sempre profumato, morbido nelle giunture e incorrotto nella carne, a parte la faccia massacrata dagli zelanti badili. La misero nella cassa pensando di riseppellirla il giorno dopo ma la mattina il viso era miracolosamente tornato “bianco bello e pastoso come vivo”.
La notizia si diffuse in città, così le monache decisero di esporre la salma nella loro chiesa del Corpus Domini (da allora detta “Chiesa della Santa”); vollero metterla a sedere su un seggio dorato, ma si irrigidì. La nuova Badessa allora le ordinò di sedersi, e solo allora la salma obbedì, come sempre Caterina aveva obbedito ai comandi dei superiori.
Così il suo corpo trovò una collocazione che ancor oggi conserva: si trova nella cappella del Monastero del Corpus Domini, senza alcuna maschera, seduta, visibile a tutti e non sigillata.
Nota bene: riproduzioni a stampa, o in scultura, della sua insolita sepoltura seduta sono presenti in diverse chiese della città.
Il culto fu immediato e ininterrotto: poiché però in quegli anni andavano mutando le regole per la canonizzazione, fu canonizzata solo nel 1712.
Papa Clemente VII concesse la celebrazione della Messa e dell’ufficio proprio per il 9 marzo.
Il processo di canonizzazione iniziò nel 1669, e fu proclamata santa il 22 maggio 1712 a Roma, nella festa della SS. Trinità.
Santa Caterina non vide la costruzione della bella chiesa (1477-80), ad opera di Nicolò Marchione da Firenze e di Francesco Fucci da Dozza, e dello splendido portale: ultimo e unico ricordo della chiesa quattrocentesca.
Nel 1687 infatti, necessitando la chiesa di interventi di consolidamento e ammodernamento per i gusti mutati, se ne affidò la riedificazione a Gian Giacomo Monti: la chiesa venne allungata, allargata e la volta venne alzata. Marcantonio Franceschini, Luigi Quaini (1643-1717) suo cognato, e Enrico Haffner la decorarono con grande ricchezza di stucchi e pitture. La facciata fu poi restaurata dal Rubbiani nel 1905.
Tutto quanto risale al 1400 in questa chiesa, è legato sostanzialmente alla Santa: la sua opera pittorica che rappresenta la Madonna col Bambino è conservata nella sua cappella, di fronte alla viola che suonava.
La cappella è traboccante di ornati splendidi, dorati. Il programma iconografico e decorativo della chiesa è compatto e quasi interamente conservato: le pitture murali sono del Franceschini in riquadrature di Luigi Quaini (Ravenna 1643 – Bologna 1717, fu allievo del Guercino e di C. Cignani, collaborò spesso con M. Franceschini, di cui era cognato) e di Enrico Haffner (Bologna 1640 – ivi 1702), statue e stucchi sono di Giuseppe Maria Mazza (Bologna, 1653 – Bologna, 1741).
Rilevante è nella chiesa il motivo dell’Eucaristia, la cui raffigurazione è ripetuta alla sommità di ogni colonna.
Dall’ingresso nella chiesa, si vede imponente il grande dipinto dell’altar maggiore, una Comunione degli Apostoli del Franceschini: non solo vediamo Cristo comunicare gli Apostoli, e qui sembra essere il momento della comunione di san Pietro, mentre Giuda avendo mangiato la sua condanna (Paolo, I Corinti 11,29: perché chi mangia e beve senza riconoscere il corpo del Signore, mangia e beve la propria condanna) si allontana inseguito da demoni, mentre angeli turibolanti incensano l’evento. Per la verità, la questione della comunione di Giuda è piuttosto controversa, e la sequenza cronologica non è chiara e univoca nei vangeli sinottici. Qui sembra che Giuda abbia già ricevuto la comunione, e si allontani. Tuttavia, la lettura di chi vede Giuda allontanarsi non sopportando la vista dell’Eucaristia non è inaccettabile.
Nella chiesa si susseguono immagini che ricordano il tema eucaristico, la vita della Santa e le devozioni, a san Giuseppe per esempio, e le storie delle Clarisse.
Leggiamo la chiesa dalla prima cappella entrando a sinistra.
Qui si trova il “Transito di san Giuseppe”, del Franceschini, in un ovale ornato da angioletti attribuiti al Mazza. San Giuseppe, sostenuto da un angelo, è assistito dal Figlio e dalla Vergine Maria: per questa specialissima compagnia al momento della morte, san Giuseppe è invocato come patrono della buona morte.
Recenti studi hanno rilevato che il Franceschini, allievo del Cignani,si è probabilmente ispirato a disegni del suo maestro. Nella volta, una decorazione, solo parzialmente conservata, dello stesso Franceschini e di Haffner, con il cielo che si apre per accogliere il santo patrono della Chiesa Universale.
La seconda cappella a sinistra è dedicata alla Immacolata Concezione, sempre del Franceschini: ma un tempo era qui presente una Annunciazione dello stesso autore. L’iconografia è solenne: la Vergine, incoronata dalle dodici stelle che alludono alle Dodici allegrezze di Maria, apre il manto azzurro a proteggere il mondo: si erge sul globo terreste, e poggia i piedi sulla falce di luna e calpesta il capo del serpente che, con in bocca una mela, allude al peccato originale. C’è qui una evidente riferimento al cosiddetto Protovangelo di Genesi 3,15: “Io porrò inimicizia fra te e la donna, e fra la tua progenie e la progenie di lei; questa progenie ti schiaccerà il capo e tu le ferirai il calcagno”, detta protovangelo perché primo annuncio della venuta del Salvatore. I colori della Vergine sono quelli tipici in Occidente, cioè il bianco per la purezza e l’azzurro per rappresentare il cielo che l’avvolge.
Ai lati del dipinto, le statue, attribuite al Tadolini (Adamo Tadolini (Bologna, 1788 – Roma, 1868, scultore di due profeti, già molto danneggiate. Il profeta a sinistra del dipinto è Daniele.
Nella successiva terza cappella si trova sull’altare un rilievo in stucco rappresentante S. Antonio di Padova, in ginocchio davanti a Gesù Bambino, opera di Alfonso Bortolotti del 1957: l’inserimento di nuovi stucchi monocromatici si ricollegava alla presenza – mutilata dalla guerra – di stucchi sei -settecenteschi nella chiesa. Sulle pareti laterali, altri due rilievi di Giuseppe Mazza, a sinistra l’Orazione di Cristo nell’ orto di Getsemani, che, molto danneggiato dalla guerra, subì un lungo lavoro di restauro fino alla metà degli anni Sessanta; a destra si trova il Battesimo di Cristo. In alto, sopra l’altare, ancora un rilievo in stucco, sempre del Mazza raffigurante Dio padre benedicente, interamente rifatto in seguito alle distruzioni belliche.
Sull’arcone della cappella un dipinto murale di Franceschini che rappresenta l’allegoria della Sapienza e corrisponde a quello della cappella che lo fronteggia con l’allegoria della Prudenza.
La cappella quarta si apre nel transetto di sinistra, e corrisponde alla cappella della Santa, di cui consente una visione tramite una apertura. Sopra la quale si trova oggi sull’ altare una tela del XIX secolo raffigurante due angeli in volo, purtroppo in pessimo stato. Sull’altare attorno alla tela sono collocati due angeli in stucco a figura intera, di profilo con drappeggi svolazzanti intorno al corpo, attribuiti a Giuseppe Mazza, come i putti reggicartiglio sulla cimasa dell’altare.
Sull’altar maggiore, che potremmo dire cappella quinta, si trova il grande dipinto del Franceschini già presentato. La tela fu commissionata da una famiglia modenese, i Sora, che ordinarono anche due quadri posti alle pareti laterali, rappresentanti due momenti della vita della Santa: “Caterina e le anime purganti”, originariamente collocata nel Salone delle Adunanze e concepita come stendardo da portare in processione dalla “Compagnia delli quaranta secolari divoti di S. Caterina”, e, di fronte, sulla parete destra, “Caterina in preghiera”.
La tela provocò le critiche per l’insolita presenza di Giuda che pare fuggire alla vista dell’ostia, incalzato da un diavolo volante. Il papa Clemente VIII censurò la particolare scelta iconografica, disapprovando la vicinanza tra Cristo e il diavolo; ma il Franceschini si difese invocando il precedente del pittore Federico Barocci che aveva trattato 1o stesso tema nell’insolito modo, nel dipinto di analogo soggetto a Roma in Santa Maria sopra Minerva (una copia di questo dipinto si può vedere a Bologna nella chiesa di San Giacomo Maggiore). Ai lati del dipinto stanno due monumentali statue in stucco, a sinistra San Francesco di Assisi in contemplazione della croce, e a destra Santa Chiara, colta nel momento in cui allontana degli assalitori armati esponendo l’Ostensorio in forma di reliquiario; le due statue sono di Giuseppe Mazza, come pure è del Mazza la Gloria dell’Eterno Padre sopra l’altare, in stucco.
Nella cupola, è rimasto un frammento del dipinto murale rappresentante Santa Caterina in gloria attribuito a Franceschini. La Santa era qui accolta in cielo e festeggiata da santi. Nei pennacchi della cupola troviamo le Virtù cardinali, Fede, Speranza, Carità e l’Umiltà, sempre del Franceschini con la collaborazione di Lugi Quaini.
La sesta cappella, cioè la prima dopo l’altare maggiore e di fronte alla cappella che invita alla visione della Santa nella sua cappella, presenta la Vergine con i misteri del Rosario: statua e tondi sono opera di Giuseppe Mazza. Alla parete sinistra, il dipinto di Ludovico Carracci La Madonna alla liberazione degli eletti dal Limbo, e alla parete di destra, l’Assunzione della Vergine, sempre di Ludovico Carracci. Suggestiva è l’immagine del Figlio che accoglie la Madre in cielo, mentre gli Apostoli sono sconcertati intorno al sarcofago vuoto.
Il titolo del dipinto indicato in genere come La Madonna alla liberazione degli eletti dal Limbo, per la quale si adduce un collegamento con la Bulla Sabatina di Clemente VII, in realtà è frutto di un equivoco: la donna in rosso cui Gesù portando la croce prende la mano, è di fatto Eva, così rappresentata in numerosissimi dipinti sia d’Occidente che d’Oriente: dietro Eva si assiepano i giusti dell’Antico Testamento. La Bulla Sabatina riguarda invece la promessa della Vergine ai Carmelitani di assisterli e salvarli nell’ultima ora. Non si vede invece nel dipinto la Vergine.
Nella successiva cappella settima, dove era un rilievo con la Cena di Emmaus di Angelo Piò, distrutta dalla guerra, troviamo oggi la lastra tombale di Luigi Galvani: lo scienziato bolognese era devoto di Caterina e, morto nel 1798, desiderò farsi seppellire nel monastero. I suoi resti, insieme a quelli della consorte Lucia Galeazzi, sono stati posti nel dopoguerra in questa cappella, segnalando l’uno e l’altra con le due grandi lapidi sopra le quali dal 1957 è posto un Crocefisso in stucco modellato da Alfonso Bortolotti. Una lapide all’esterno ricorda questa presenza.
Alla parete destra di questa cappella si trova, ed era congruo con il programma precedente, un rilievo raffigurante l’“Ecce Homo”, del Piò, e a sinistra, dello stesso autore, la “Cattura di Gesù nell’orto degli ulivi”.
Nell’arcone, un dipinto murale di Franceschini raffigurante l’allegoria della Prudenza; la Prudenza, unica sopravvissuta assieme alla Sapienza – dipinta nella cappella difronte – faceva parte di una serie di opere raffiguranti le virtù collocate sotto le finestre, sugli arconi delle cappelle. L’ordine previsto era Fedeltà, Prudenza, Sapienza, Vigilanza, virtù tipiche di Caterina.
La cappella ottava ospita una Trinità in gloria del Franceschini, che sostituisce una precedente “Vergine ai piedi della croce” di Savonuzzi “. Ai lati del dipinto due statue di profeti in stucco: Geremia e Isaia, di Angelo Piò, sono naturalmente simmetriche rispetto ai profeti che il Tadolini aveva realizzato nella cappella seconda.
Nella cappella nona, ultima prima del portale di questo giro ideale nella chiesa, si trova sull’altare il dipinto di Denis Calvaert S. Francesco riceve le stimmate, della prima metà del XVII secolo, qui giunto dopo il 1700 dalla quadreria del marchese Paleotti. Sulla parete di sinistra della cappella, il dipinto che raffigura “Una Matrona con le sue seguaci esortate da san Carlo Borromeo a fondare un monastero sotto l’ordine di S. Chiara” di Giovanni Maria Viani: sotto una apparizione di Santa Chiara, san Carlo Borromeo riceve alcune nobildonne milanesi e le esorta ad aprire un monastero di Clarisse.
Nella navata, le quindici stazioni, quadretti in terracotta policroma, della Via Crucis sono del 1771, opera di Sebastiano Sarti.
Alla Cappella della Santa si accede dalla seconda cappella a sinistra. Sotto la volta, i quattro evangelisti in atto di scrivere, accompagnati dai simboli o dagli animali che li rappresentano, sono racchiusi entro cornici decorate a fogliame in stucco dorato, sostenute da coppie di putti reggighirlanda, opera di Giuseppe Mazza.
Il corpo è chiuso in una teca di vetro: incorrotto, è seduto su un trono antico in legno dorato, donato dai Bentivoglio nel 1488; il baldacchino con reliquiario, attribuito a Mazza, fu collocato nel 1687; in alto un drappo in tessuto moderno è tenuto da quattro angeli in volo. Il complesso decorativo, smontato dopo i bombardamenti del 1943 è ampiamente rimaneggiato rispetto alla sua forma originale.
Accanto al trono che accoglie il corpo della Santa stanno due angeli musicanti, uno con l’arpa e l’altro con la lira. Di fronte al trono della Santa, un oculo con grata comunica con la chiesa del pubblico, e sopra la grata sta una lapide in marmo nero con iscrizione in caratteri dorati. Ai lati della grata due enormi ceri ornati a racemi dorati con teste di cherubino, alternati a busti di santi in rilievo. Sulla parete di sinistra, un reliquiario a tabella partito in scomparti, presumibilmente risalente al periodo di erezione della cappella, ospita un dipinto di Madonna col Bambino della prima metà del secolo XV, rimaneggiato e ampiamente ridipinto in epoche successive. Tradizionalmente attribuita a Caterina, la tavola è stata avvicinata alla maniera di Lippo di Dalmasio – di cui peraltro la Santa secondo certa tradizione sarebbe stata discepola.
Sotto, un’altra vetrina per reliquie, contiene un’immagine di Gesù Bambino in fasce attribuito a Caterina: è un dipinto su carta applicata su tavola: Gesù è rivestito di un coprifasce in seta e canutiglia d’oro e d’argento: dipingere il Bambino in fasce ha precedenti illustri, perlopiù nel Medio Evo. Mentre l’arte quatttrocentesca amava rappresentare Gesù Bambino nudo, Caterina scelse lo stile più antico, con il Bambino “avvolto in fasce” secondo l’annuncio ai pastori (Luca 2, 6-20).
Sopra i due reliquiari, entro teche in legno, sono esposti due testi: a sinistra il breviario che Caterina personalmente miniò, entrando coi suoi disegni dentro la stessa scrittura del testo e scegliendo, lei così colta, un segno iconico arcaico di gusto bizantineggiante che ignorava la cultura tardo gotica conosciuta alla corte estense. Nell’altra teca, quella di destra, Le Sette Armi Spirituali da lei composto e ugualmente miniato.
Altri reliquiari sono collocati nelle quattro vetrine poste agli angoli della cappella. Nella parete destra, accanto alla grata che comunica con il museo, una teca contiene la viola sulle cui corde Caterina, nell’ultimo anno di vita, già consumata dal male, tentava di riprodurre l’angelica melodia udita nell’estasi “et gloria ejus in te videbitur”. Secondo la testimonianza di Illuminata Bembo: “In oltre fu di bisogno… se le trovasse una violetta (ndr: viola), e quella più volte sonando ella pareva tutta si dileguasse come fa la cera al foco; ora cantava, ora tenea la faccia verso il cielo stando come muta…” Sopra la viola di Caterina, un reliquiario a tabella in legno che contiene altre testimonianze, tra queste, al centro dei riquadri del bordo interno, una teca a tempietto in rame con la reliquia più preziosa: il sangue misto a umore trasudato dal corpo di Caterina già morta.
Durante la guerra il corpo fu portato in salvo nel Convento dell’Osservanza, ma nell’ultima fase venne riportato al Corpus Domini e posto nella cappella scampata alla distruzione: da lì le suore lo portavano con sé nel rifugio sotterraneo ogni volta che suonava l’allarme.
Al Museo della Santa si accede dalla Cappella. Il piccolo museo fu voluto nel 1919 dal Card.Gusmini, e vi si trovano dipinti, sculture e oggetti devozionali.
Un dipinto rappresentante “Santa Caterina sul letto di morte“, in tempera su carta, ritrae la testa della Santa vestita da Clarissa, su un fondo azzurro cosparso di stelle: è considerata opera di Illuminata Bembo, realizzata alla morte della Santa.
Un’altra opera è attribuita alla Santa, ma in realtà è di epoca successiva: una incisione di “Madonna col Bambino” dipinta a tempera e dorata nelle aureole. La Vergine indossa un abito blu con fiori stilizzati e tiene un cuore nella mano destra: sulle ginocchia siede il Bambino con un piccolo pomo nella mano sinistra. Segnaliamo anche un dipinto rappresentante Cristo portacroce di ambito fiammingo della prima metà del secolo XVI, e una miniatura con il Cristo benedicente. Da notare un dipinto rappresentante la Beata Paola Mezzavacca, che assieme a Caterina, fu una delle monache fondatrici del monastero.
Di Giulio Morina sono le tavolette con Episodi della vita di S. Caterina, commissionate dai Pepoli nel 1587. Le tavolette corrispondono ai 24 disegni preparatori a inchiostro e seppia che Morina raccolse in un volumetto datato 1594, recante nel frontespizio “Somario affigurato della vita morte e miracoli della Beata Caterina descritta in pittura”.
Una tela con San Francesco in orazione è di Giuseppe Maria Crespi, e una “Visione di Caterina” è oggi conservata in Pinacoteca.
Il Cristo crocifisso scolpito in legno risale alla prima metà del secolo XV: secondo la tradizione fu donato da S. Caterina al monastero al suo arrivo a Bologna. Una scultura raffigurante un busto di Cristo in terracotta dipinta, risale alla prima metà del secolo XVI e, secondo la tradizione, venne portato a Bologna da Caterina.
Uno scapolare in canapa è tradizionalmente considerato parte dell’abito di S. Caterina.
Vi sono poi le tre “carieghe”, cioè le seggiole, di Caterina: la seconda sedia reca la seguente incisione: “questa è la propria cariega dove si accomodò a sedere la Beata Caterina per obbedienza dopo l’’esser stato il suo corpo disteso per anni 12 che fu l’anno 1475”. Nella terza sedia si può leggere: “Questa scranna è la propria che portò la Beata Madre Caterina quando venne ad allevare questo S. monastero de Corpo di Christo a Bologna che fu l’anno 1455”.
Troviamo qui infine “duro giaciglio”, ossia il telaio del letto proveniente dalla cella di Caterina.
Dietro l’altar maggiore, si trova Chiesa Interna, della clausura, dove quattro dipinti di grandi dimensioni che occupano tutta la parete di fondo; racchiusi da ricche cornici coeve e stilisticamente affini, i dipinti sono assemblati in modo da costituire un’unica grande pala: al centro “Assunzione della Vergine” di Prospero Fontana datata 1565, sormontata da “Madonna e Santi” di Giacomo Francia, a sinistra “Adorazione dei Magi” ancora di Fontana e a destra “Trasfigurazione” di Orazio Sammachini del 1569. In controfacciata, un dipinto di Giovanni Ramenghi detto Bagnacavallo junior con “Madonna Assunta e i quattro Dottori della Chiesa” del 1575, a destra “Battesimo di Cristo“, recentemente attribuito a Prospero Fontana.
Sotto la grande ancona sta un dipinto su tavola ribaltabile, utilizzato come sportello apribile che copre una grata di comunicazione tra chiesa esterna e interna sulla tavola è dipinta un’ “Annunciazione” di autore anonimo. Il coro, nel quale ancora oggi pregano le monache, è del XV secolo: è in legno di noce intagliato, composto da 110 stalli divisi in due sezioni e disposti su due ordini. Solo gli stalli centrali – quelli dove siedono la Badessa e la Vicaria – sono intarsiati: ciascuno rappresenta un calice con l’ostia consacrata e il monogramma bernardiniano di Gesù: IHS.
E’ questo uno dei simboli eucaristici più frequenti, detto trigramma di san Bernardino, perché da lui stesso ideato per la sua predicazione: IHS: sono le prime tre lettere di Iesus in greco ЈНΣΥΣ, oppure è l’acrostico di: In Hoc Signo (vinces); oppure anche di: Jesus Heiland Seligmacher = Gesù Redentore che rende beati, e soprattutto: Iesus Hominum Salvator.