Gli Agostiniani e i Bentivoglio, presenze di fede, arte e storia in Bologna
La chiesa dedicata a San Giacomo fu iniziata nel 1285, dopo che gli Agostiniani, quarti in ordine di tempo fra gli ordini mendicanti, si erano stabiliti a Bologna nel 1267 (Francescani 1211, Domenicani 1218, Serviti 1261).
Insieme alla Gerusalemme bolognese nel Complesso Stefaniano, questa grande basilica di San Giacomo Maggiore, oggi come alle origini retta dai Padri Agostiniani, con la dedicazione a san Giacomo attesta l’essere Bologna centro di pellegrinaggio, da cui poi si dipartono molti cammini.
Questo fatto e la predilezione dei Bentivoglio per questa chiesa, vicinissima al loro palazzo, è stato determinante per l’accumularsi in essa di opere d’arte molto significative e belle.
Nella basilica di San Giacomo Maggiore in Bologna si trovava una delle poche immagini di san Giacomo cavaliere e matamoros databili tra il XII e il XIV sec., e per antichità e peculiarità iconografiche, è rara nel panorama delle immagini jacobee, ciò che, anche con la sua sola memoria -dato che si trova attualmente nella Pinacoteca Comunale- dà al culto di san Giacomo in Bologna una qualità particolare..
Una chiesa e un convento dedicati a san Giacomo fecero la loro comparsa in Bologna nel 1247, quando il vescovo di Bologna concesse ad alcuni frati che diverranno in breve gli Agostiniani, un terreno appena fuori dalle mura[1] .
Furono quindi edificati un convento e una chiesa, dedicata a san Giacomo Maggiore, posti tra l’attuale porta Zamboni, allora uscita dalle mura di Strata Sancti Donati, e porta San Vitale, allora sbocco della Strata Sancti Vitalis : essendo la chiesa dedicata, oltre che a sant’Agostino, a san Giacomo, vennero detti anche Frati di San Giacomo
Nell’Europa percorsa incessantemente da pellegrini, il culto di san Giacomo, avvocato protettore affidabilissimo e prediletto dai pellegrini, si era andato diffondendo, come pure il pellegrinaggio alla sua tomba a Santiago de Compostela. Bologna si trova proprio là dove si intersecavano la Via Germanica indicata dagli Annales Stadenses e la Francigena allora meglio servita.
Il traffico dei pellegrini si spostò dalla strada di Monte Bardone e dal valico della Cisa a quello delle valli (e dei crinali) del Reno, del Setta, del Savena, dell’Idice, e anche del Sillaro e del Santerno, per cui i pellegrini furono attratti nell’area di Bologna, dove trovavano la memoria di san Giacomo nonché la Sancta Jerusalem Bononiensis, fin dal IX secolo sostitutiva del pellegrinaggio a Gerusalemme e figure della Gerusalemme celeste.
La chiesa dedicata a San Giacomo fu edificata tra il 1267 e il 1315: l’edificio presenta una pianta allungata, a mononavata, e il suo stile è di transizione tra il romanico e il gotico: nella zona absidale furono aggiunte nel secolo XV il peribolo e le cappelle radiali che assimilano l’edificio alle grandi chiese di pellegrinaggio europee.
La facciata monocuspidata presenta un misto di elementi romanici (il rosone, gli spioventi, le scodelle di ceramica inserite nella tessitura dei laterizi) e gotici (le finestre, il portale) che l’avvicinano alla Basilica di San Francesco; tre croci in marmo inserite nelle pareti ricordano il Calvario.
La figura di San Giacomo e l’idea del pellegrinaggio sono richiamate anche dalla conchiglia alla cuspide (la conchiglia è emblema del pellegrinaggio a Santiago – San Jago, San Giacomo – de Compostela in Spagna, e divenne segno distintivo di tutti i pellegrini ) degli spioventi della facciata e in quelle nella facciata stessa, mentre il tema ricorrente del leone (leoni stilofori sono ai lati del portale, leoni sostengono le colonnette dell’edicola del santo sopra la facciata e leoni sono ai piedi dei finestroni) rimanda alla Resurrezione di cui il leone è spesso simbolo. Il leone ruggente è segno di forza; inoltre i leoncini, che si credevano partoriti morti e poi come restituiti alla vita dopo tre giorni dalle cure del padre, erano immagine della resurrezione.
Sopra gli altari laterali, circa a metà dell’altezza dell’edificio e sotto i grandi finestroni che la illuminano, corre un parapetto sul quale sono collocate le statue del Redentore, della Vergine e di tutti gli Apostoli, terrecotte di Pietro Becchetti (1765), facilmente riconoscibili per gli evidenti attributi, gli strumenti del martirio.
Questa sistemazione è della fine del ‘400, e ha in parte nascosto i dipinti trecenteschi sottostanti.
La decorazione successiva è stata coperta in occasione della peste del 1630.
Oggi questa chiesa si presenta, nei suoi soggetti e nei suoi artisti, come un sunto dell’arte e della devozione dei bolognesi. Ad essa è sempre stata legata la famiglia dei Bentivoglio, che tanta impronta hanno lasciato nella città (in calce, una breve storia di questa famiglia), dato che le loro vicende ed opere si legano infatti fortemente alla storia di Bologna, di cui sono stati i veri e unici Signori, determinandone l’immagine e arricchendone le bellezze. La trovarono di legno e la lasciarono di pietra, secondo quanto dissero. La famiglia considerò “sua” la chiesa di San Giacomo, prossima al palazzo Bentivoglio ora distrutto, e vi profuse beneficenze e opere.
Appena entrati, nella prima cappella a destra, subito vediamo un volto bentivolesco nella immagine della beata Vergine della Cintura (o della Consolazione): confrontandolo con altri ritratti in questa stessa chiesa, scopriamo i lineamenti di Ginevra Sforza moglie di Giovanni II. Quello che vediamo è di Guido Reni (1677-1735), copia di un affresco sottostante, della scuola del Francia, che presenta, oltre alla Madonna col Bambino, anche sant’Agostino e la madre di lui santa Monica. Si spiega, così l’appellativo “della consolazione”, che allude al fatto che la conversione di Agostino fu la consolazione appunto della madre Monica. L’appellativo “della cintura” ricorda il fatto che l’immagine era legata alla Compagnia dei Cinturati, cioè al terzo ordine agostiniano. La cintura, per gli agostiniani, è il segno dell’ordine: infatti il papa, nel definire l’Ordine alla metà del XIII secolo, diede loro, per distinguerli fra gli ordini che si andavano formando, tutti grigiovestiti, la cintura invece del cingolo o altro: successivamente, anche il colore dell’abito cambiò e divenne, da grigio, nero.
Ritroviamo il volto di Ginevra in una riproduzione di questo dipinto posto all’esterno del complesso sulla parete del convento che dà sul portico di Piazza Verdi, offerto alla devozione dei passanti e oggi in tristi condizioni.
Altra importante memoria dei Bentivoglio è la sepoltura di Antongaleazzo al quale, qui traslato della chiesetta di San Cristoforo, fu riservato il capolavoro marmoreo di Jacopo della Quercia (1433), in cui un recente restauro ha rivelato tracce di dorature. L’immagine ricorda quella dei dottori dello Studio: Antongaleazzo era stato infatti giureconsulto, tuttavia costituisce una curiosità il fatto che la figura del maestro nel sarcofago non sia la sua. Il sarcofago infatti era stato scolpito per Vari, professore dello Studio, ed è lui che vediamo in cattedra fra i discepoli. Per questo motivo non si può inserire Antongaleazzo tra i Bentivoglio di cui abbiamo il ritratto in questa chiesa: pur sua la tomba, non è a immagine sua la figura scolpitavi. Non per questo è meno significativo il programma iconografico. Sulla pietra tombale del sarcofago, il defunto poggia il capo e i piedi sui libri, che accompagnarono i pensieri e i passi della sua vita. Nella lastra frontale, vediamo ancora il maestro tra i suoi studenti; ai lati, le figure delle 4 virtù cardinali, che ne accompagnarono la vita, sono riconoscibili per il calice (Temperanza, il vino temperato, mescolato con acqua) per lo scettro (Fortezza), per il serpente (Prudenza, vedi Matteo 10,16, i cristiani devono essere prudenti come serpenti) e per la spada (Giustizia: la spada è simbolo della forza invincibile della verità celeste). Su tutto vediamo la protezione della Vergine col Bambino, affiancata dai Santi Pietro e Paolo. Le spoglie di Antongaleazzo furono qui poste nel 1443.
Di fronte, e al lato sinistro poi del deambulatorio absidale, si trova la Cappella Bentivoglio, iniziata da Annibale I nel 1445 (aveva acquistato la cappella proprio l’anno stesso in cui cadde vittima della congiura dei Canetoli e dei Ghisilieri), e ampliata da Giovanni II nel 1486.
Lo schema architettonico è quello delle cappelle toscane: pianta quadrata, con arco d’ingresso, lunette negli altri tre lati, sormontata da una cupola. Punto centrale della cappella è il presbiterio, sulla parete di fondo, con quattro colonne di marmo rosso di Verona con capitelli corinzi. Lo spazio è limitato, ma armoniosissimo (lo si dice brunelleschiano e si fa il nome di Pagno di Lapo Portigiani); la cupola è ottagonale (l’8 è numero della resurrezione, dell’ottavo giorno, quello della nuova creazione in Cristo risorto) come un cielo sulla vita di questa famiglia.
Il programma iconografico dell’interno è stato alterato da aggiunte successive, quali il monumento equestre di Annibale: tuttavia è ricostruibile un disegno unitario, che ha il suo cuore nel concetto vanitas vanitatum, tutto è vanità. Infatti, la fama e gli onori del mondo, per cui pure i Bentivoglio tanto avevano lottato e profuso di mezzi ed energie, risultano vanificati nella morte in cui solo resta quanto era ordinato alla gloria di Dio. La fortuna della famiglia è riconosciuta come “grazia” nell’ex-voto, i monumenti funebri sottolineano -e si noti che vennero fatti quando la sorte era ben propizia- il fluire e uguagliarsi delle cose.
Ai lati dell’arco trionfale della cappella, si vede un’Annunciazione di Felice Cignani (1660-1724); la lunetta sovrastante porta un affresco di Lorenzo Costa, con figure apocalittiche, ancora in consonanza col tema iconografico della cappella. Distinguiamo al centro la Donna fuggita nel deserto, insidiata dal Drago, Giovanni Evangelista che beve dal calice avvelenato, senza averne danno, dopo averlo benedetto; l’affresco fu restaurato dal Cignani, che aggiunse il pastore a destra. L’Annunciazione che introduce alla cappella esprime che tutto è inserito nella storia della redenzione, in cui fu momento culminante quello dell’incarnazione, il sì di Maria all’Angelo.
Dal punto di vista artistico, la concezione decorativa dell’interno è attribuita a Lorenzo Costa, al servizio dei Bentivoglio dal 1483.
Si tratta evidentemente di una concezione globale, anche se oggi si fatica a percepirlo per via delle aggiunte quali il monumento di Annibale: infatti, gli affreschi prevedono evidentemente un unico punto di vista del riguardante, quello che corrisponde al centro della parete cui corrisponde la colonna che lo divide in due comparti.
Attribuito a Francesco Raibolini detto il Francia, e datato al 1497, vediamo entrando, in alto a destra, Giovanni II in persona, in un profilo in marmo. Poi vediamo Annibale, in un ritratto equestre in altorilievo policromo in marmo, di autore ignoto; segue, e attrae gli sguardi, l’opera di Lorenzo Costa (1488-89).
La Cappella costituisce un ex-voto, offerto dalla famiglia per essere usciti incolumi dalla congiura dei Malvezzi (27 novembre 1488), che avrebbe dovuto causare la loro strage. Ci sono tutti i Bentivoglio, ai piedi della Madonna in trono, col Bambino benedicente. Vediamo Giovanni II e la moglie Ginevra, in ginocchio rispettivamente a destra e a sinistra (rispetto ai riguardanti) ai lati del trono della Madonna, nell’atteggiamento classico degli offerenti negli ex-voto, e sotto le figlie dal lato della madre, i figli dal lato del padre. Fanno ala all’epigrafe incisa sul basamento del trono della Vergine, scritta che a questa affida la famiglia e la patria del Bentivoglio:”Me/ patriam et dulces cara cum coniuge / natos/ comendo precibus / Virgo beata / tuis“. Seguono la data MCCCCLXXXVIII e la firma Luarentius Costa faciebat. E’ qui un dialogo di sguardi: la Vergine e il Bambino guardano gli offerenti, che stanno come su di una scena; Ginevra guarda decisamente lo sposo, e questi si volge ai riguardanti, come a sollecitarli a imitarlo e a mostrare quale esemplare la sua pietà. Ricordiamo le figlie: Bianca, Francesca, Violante, Laura, Isotta, Eleonora; e i figli: Annibale II, Anton Galeazzo, Alessandro, Ermete (questi fece strage dei Malvezzi dopo la fallita congiura).
Sulla parete di fondo si trovano, intorno alla pala del Francia, gli affreschi di Cesare Tamaroccio, (seguace del Francia) che rappresentano (da sinistra a destra) San Giorgio che uccide il drago, San Girolamo, Sant’Agostino, San Francesco che riceve le stimmate.
Sopra la pala, di Anonimo bolognese del sec. XIV, una raffigurazione di Cristo che ricorda il mondo delle icone, proponendo dal ciclo dedicato al Calvario, l’iconografia della Grande Umiltà, o Uomo dei Dolori, indicata erroneamente come Pietà: Cristo emerge a mezzo busto dal sepolcro, la testa inclinata, le mani e il costato feriti, mostra il sangue che cola dal costato trafitto.
La pala, celebre per i due angeli musicanti, vede la Vergine in trono, attorniata dai santi Floriano (in abito militare) Sant’Agostino (in abito vescovile), San Giovanni Evangelista (riconoscibile per il calice) e San Sebastiano (trafitto dalle frecce). Floriano e Sebastiano sono due santi soldati, Agostino è evidente omaggio ai Padri Agostiniani entro il cui tempio è collocata la cappella, mentre Giovanni Evangelista porta il nome dell’offerente Giovanni II (altro omaggio agli Agostiniani lo vediamo nei tondi decorativi della volta, in cui vediamo ancora Sant’Agostino e San Nicola da Tolentino).
La Vergine, qui come nell’affresco del Costa, come nel quadro della Madonna della Consolazione o della Cintura, presenta volti singolarmente simili, assai somiglianti a quello di Ginevra Sforza: una tradizione vuole che infatti l’intento degli artisti fosse – su committenza o meno – quello di raffigurare la sposa di Giovanni II, con differenze dettate solo dalla diversa età delle persone raffigurate.
Sulla parete di sinistra, vediamo i due Trionfi, della Fama e della Morte, che ben completano il programma iconografico di questa che avrebbe dovuto essere la cappella per la sepoltura di tutti i Bentivoglio. Sono datati al 1480 e sono di Lorenzo Costa.
Portano l’eco degli affreschi di Palazzo Schifanoia a Ferrara, e ci mostrano ancora una volta la famiglia.
Vediamo, nel Trionfo della Fama, due elefanti che trainano il carro su cui siede la figura allegorica della Fama, che dà fiato a una buccina (tromba) con la quale dà risalto alle gesta umane: la circondano guerrieri, cavalieri, poeti, eccetera, e in primo piano ancora sono i Bentivoglio, di cui facilmente riconosciamo le donne.
In alto, nel grande cerchio, quasi il baloon di un fumetto, i fatti della storia, che la Fama appunto celebra. Troviamo, al centro di tutto, la creazione di Adamo e di Eva dal costato di Adamo, la condanna al lavoro, l’uccisione di Abele, poi episodi (8) della storia greco-romana: Ventidio Basso che da umile origine sale alle alte cariche della Repubblica Romana, Cesare traghettato in mezzo a una tempesta da un barcaiolo impaurito, che rincuora dicendo: “Quid times? Caesarem vehis”, che temi, porti Cesare; l’atleta greco Milone, che, troppo orgoglioso della sua forza, resta con la mano in un albero che stava spaccando; Filippo il Macedone, ucciso al banchetto nuziale; i Romani alle Forche Caudine dopo la sconfitta ad opera dei Sanniti; Alessandro il Grande salvato dal medico Filippo; cinque cavalieri romani travolti dal crollo di un ponte; re Creso, vinto da Ciro, nel momento in cui sta per essere gettato nel rogo e viene graziato dal vincitore: il cartiglio riporta la frase che riprende il detto di Solone per cui della felicità di un uomo si può giudicare solo alla fine della sua vita: “Felix ante obitum nemo est, respice Cresum“.
Il Trionfo della Fama viene completato dal Trionfo della Morte, che conclude il discorso: la Fama diffonde la notizia degli avvenimenti famosi, ma è la Morte che tutto livella e rivela quanto tutto sia vano, conta solo la Gloria di Dio: nella morte è evidente che solo Cristo salva. Vediamo dunque la Morte, con la falce, esce dalla bara posta sul carro trainato da due bufali guidati da due scheletri; attorno, assimilati dalla morte, uomini e donne di diverse età e ruoli, e, di nuovo, alcuni Bentivoglio. Su tutto, la Trinità: in una singolare rappresentazione: lo Spirito e il Padre sovrastano il Figlio e la Madre. Al centro due angeli accolgono l’animula del defunto; intorno, gli Apostoli, sotto ai quali sono portati strumenti della passione (la colonna, la croce), e il tutto è racchiuso in una mandorla (che vela e svela la divinità) formata da un volo d’angeli.
Quando la Cappella Bentivoglio fu costruita, venne coperta la facciata della chiesetta di Santa Cecilia, antica chiesa romanica sulle cosiddette mura del mille, passata nel 1323 sotto la giurisdizione degli Agostiniani, e risistemata una prima volta nel 1359.
Mentre è senz’altro falsa l’affermazione che vorrebbe fosse stata ridotta per far spazio alla Cappella Bentivoglio, è però vero che la costruzione di questa, coprendo la sua facciata, fu occasione per una ricostruzione da parte dei Bentivoglio del portico che tanto la chiesa di San Giacomo che la chiesa di Santa Cecilia già avevano: ne risultò lo splendido elegantissimo portico che unisce le due costruzioni.
Questo fu edificato fra il 1477 e il 1481, e si procedette successivamente a una sua risistemazione nel 1483.
Ma si ebbe poi un ulteriore intervento. Tra il 1504 e il 1505 ripetuti terremoti devastarono Bologna, non risparmiando il castello dei Bentivoglio, e la loro torre, che venne scapitozzata e dovette essere abbattuta, e neppure la piccola chiesa di Santa Cecilia. Già unita al Tempio di San Giacomo dal bel portico, i Bentivoglio ne vollero affrescato a loro spese l’interno, con le storie di S.Cecilia e di S.Valeriano. Affidarono l’opera a Francesco Francia (la cui opera giovanile bolognese è andata perduta nella distruzione di palazzo Bentivoglio) e alla sua scuola.
Gli storici tramandarono, insieme al nome del Francia, quello dei due figli Giacomo e Giulio, di Lorenzo Costa, di Amico Aspertini, di Cesare Tamaroccio, Giovan Maria Chiodarolo, Bartolomeo Bagnacavallo.
Cecilia fu martire romana, viene festeggiata il 22 novembre, e divenne patrona di musicisti e cantanti per un errore di trascrizione della sua passio, in cui si dice che durante i preparativi per la nozze “cantava in cuor suo al Signore”: tralasciate le parole in cuor suo rimase il fatto che cantava, ed eccola patrona di musicisti e cantanti. Non troviamo dunque nelle storie che fedelmente ne ripercorrono i momenti della sua vita traccia alcuna di strumenti musicali.
Dieci sono i momenti offerti ai riguardanti, e traducono figurativamente la storia di Cecilia, del suo sposo Valeriano e di suo cognato Tiburzio, quale la leggiamo anche nella “Legenda Aurea” di Jacopo da Varazze.
Cecilia era una bella e nobile giovane romana, cristiana e votata in cuor suo alla vita consacrata, ma promessa sposa a Valeriano. Non potendo rifiutare le nozze, si ricolse al Signore prima che fossero celebrate; una volta sola con lo sposo, gli confidò di essere protetta da un angelo del Signore; se Valeriano l’avesse amata di amore puro, anche lui sarebbe stato protetto dall’angelo. Valeriano disse che avrebbe creduto se avesse visto, e seguì i suggerimenti di Cecilia. Cercò dunque fuori città il papa Urbano, che lo convertì e lo battezzò; tornato da Cecilia, vide l’angelo, e ne furono coronati con corone di rose e gigli. Venuto suo fratello Tiburzio, colpito dal profumo e non potendo vedere le corone, chiese spiegazioni, e anche lui si recò poi con Valeriano da Urbano, che lo battezzò. Col fratello, prese a dare sepoltura ai martiri; ciò attirò l’attenzione del prefetto Almachio, che li chiamò, li interrogò: esortati da Cecilia, affrontarono lietamente il martirio, dopo aver convertito un loro aguzzino. Almachio fece poi venire Cecilia e tentò di scuoterne la fede, facendola immergere in acqua bollente; tutto fu vano, e la fece allora decapitare. Al terzo colpo, Cecilia non era ancora morta: nei tre giorni di agonia poté distribuire ai poveri le sue ricchezze e chiedere a Urbano che la sua abitazione divenisse una chiesa, e il papa eseguì le sue volontà.
Vediamo dunque :
- Lo sposalizio di S.Cecilia, (F.Francia).
- Valeriano istruito nella fede dal Papa S.Urbano, (L.Costa).
- Il Battesimo di Valeriano, (Anonimo bolognese e A.Aspertini).
- I due sposi incoronati dall’Angelo, (A.Apsertini).
- Martirio di Valeriano e Tiburzio, (A.Aspertini).
- Sepoltura dei due fratelli, (A.Aspertini).
- Cecilia disputa col prefetto Almachio, (Anonimo bolognese).
- Cecilia posta nel bagno bollente, (C.Tamarocci).
- Cecilia dona ai poveri le sue ricchezze, (L.Costa).
- Deposizione della Santa nel sepolcro, (F.Francia)
I dieci comparti sono belli e armoniosi nella loro composizione, per cui il programma iconografico, pur nella diversità delle mani si mantiene unitario: vale la pena di sottolineare alcuni particolari.
Notiamo qui che nel volto della santa ritorna il volto della sposa di Giovanni II; nelle ariose volte sotto cui viene celebrato il matrimonio sembra come l’eco dell’iconografia bizantina, che nella costruzione di fondo e di contorno alle scene vede il simbolo della Chiesa, e ricordiamo che la casa di Cecilia diventerà una chiesa.
Nella “Conversione di Valeriano” il momento che la precede, in cui Valeriano interroga i poveri per farsi indicare sant’Urbano, questa scena compare sullo sfondo, e vediamo Valeriano a cavallo; nel Battesimo, si nota sullo sfondo la figura sopraggiungente di Cecilia biancovestita.
Nell’ “Incoronazione degli sposi”, sullo sfondo ancora vediamo la scena del “battesimo di Valeriano”.
Nel “Martirio dei due fratelli”, la colonna porta alla base una formella con figure di uomini che sacrificano agli dei, mentre davanti ai martiri viene sostenuto uno scudo con l’immagine di due uomini legati davanti a un giudice, quasi a narrare quello che essi stessi hanno fatto e ciò che hanno rifiutato. Nel seppellimento vediamo, nel lato del sarcofago che accoglie i corpi, una “Ultima Cena”, significativa evocazione del banchetto eucaristico e paradisiaco cui i due già sono assisi; notiamo qui anche Cecilia che si copre il volto con la mano.
Notevolissima la copertura a cupole con embrici disposti a squame, che ricorda architetture orientali, e che è stata ripristinata negli anni 1914-15 dal Comitato per Bologna Storico Artistica, dopo che era stata coperta da un tetto a spioventi.
Entrando nella chiesa di San Giacomo, a sinistra subito si trova un bel Crocifisso ligneo del sec.XV, inserito in un altare imponente di legno dorato, nella Cappella Malvezzi.
Nella chiesa vi sono ben 35 sono fra altari e cappelle, alle opere d’arte delle quali bisogna aggiungere quanto custodito nella sagrestia, nella sala capitolare e nella Cappella di Santa Cecilia.
In particolare si segnalano gli affreschi duecenteschi delle arche sepolcrali e le opere del ‘300 bolognese.
Gustosissimi sono gli stucchi dei paliotti secenteschi degli altari.
La chiesa oggi è famosa soprattutto per la devozione a Santa Rita, santa agostiniana, qui veneratissima: la sua festa, il 22 maggio, è occasione per un enorme concorso di popolo, preparato dalla pratica dei quindici giovedì.
Detta la Santa degli impossibili, Santa Rita riceve qui le suppliche dei bolognesi tutti, e in particolare degli studenti, dato che si trova nella zona universitaria, e le feluche non mancano tra gli ex-voto numerosissimi.
Il giorno 22 maggio, alle ore 12, la chiesa è stracolma di fedeli per la recita della tradizionale supplica, momento esemplare della devozione bolognese alla santa. Tutti poi si affollano per ricevere le rose benedette.
Le Cappelle
In sintesi, partendo dalla destra dell’ingresso principale ora chiuso, sono 35 cappelle, compresa quella maggiore.
1 – Cappella della Compagnia della Consolazione, detta anche “dei Centurati”. Madonna della Cintura con il Bambino, dipinto su tavola, copia dell’affresco della scuola del Francia coperto dall’ancona stessa.
2 – Cappella Coltelli. Dipinto settecentesco con Sant’Agostino e santa Monica di Antonio Rossi.
3 – Cappella Malvezzi, già dedicata a santa Rita e ora a san Giovanni da Sahagun (o di San Facondo)(1430 ca.-1479), agostiniano. La pala con Cristo che appare a san Giovanni da Sahagun (1620) di Giacomo Cavedoni.
4 – La Conversione di san Paolo (1573) è una delle migliori opere di Ercole Procaccini. Sul pilastro memoria di Isotta Manzoli Bentivoglio, morta nel 1622, con ritratto in marmo policromo della defunta.
5 – Cappella Pepoli, è attualmente dedicata a santa Rita di Cascia, agostiniana. Pala con Cristo che appare a S. Rita coi santi Francesco e Piriteo Malvezzi, (1734) del senese Galgano Perpignani.
6 – Cappella della Compagnia dei Gargiolari (arte della canapa). Pala con la Madonna e i santi Agostino, Stefano, Giovanni Battista, Antonio abate e Nicolò, con i committenti coniugi Brigola, nel 1565 da Bartolomeo Passarotti. La cappella è inquadrata dalle prospettive e dagli ornati eseguiti nel 1673 da Angelo Michele Colonna e Giacomo Alboresi.
7 – Cappella Orsi, Prospero Fontana dipinse la pala che rappresenta la Elemosina di sant’Alessio (1576) e gli affreschi della volta col coro degli angeli e due storie del santo. Sopra l’altare è l’urna con le spoglie del beato Simone da Todi, agostiniano, morto a Bologna nel 1322.
8 – Sposalizio mistico di S. Caterina e i santi Giuseppe, Giovanni Battista, Giovanni Evangelista e Maddalena, tavola firmata e datata 1536 di Innocenzo Francucci da Imola; nella predella piccolo Presepe. Anche gli affreschi laterali sono di Innocenzo, eseguiti forse nel 1514. Sulla parete sinistra è la tomba del giureconsulto Giovan Battista Malavolta (1533), di Alfonso Lombardi.
9 – Cappella Bianchetti. Glorioso funerali di sant’Agostino, di Tommaso Laureti. Sia la progettazione architettonica che i dipinti sono di Tommaso Laureti.
10 – Cappella Guidalotti. San Rocco, di Ludovico Carracci. La decorazione della volta e delle pareti è della scuola carraccesca.
11 – Cappella Malvasia, dedicata a San Michele Arcangelo. Gli affreschi delle pareti (i quattro dottori) e della cupoletta (i quattro Evangelisti) sono di Lorenzo Sabbatini (prima del 1570); la pala con la Madonna con il Bambino e san Giovannino, san Michele e il diavolo (1562) è del Sabbatini aiutato dal suo discepolo Denijs Calvaert.
12 – Cappella Poggi, dedicata a San Giovanni Battista; fatta costruire dal cardinale Giovanni Poggi per la sua sepoltura. I lavori furono affidati a Pellegrino Tibaldi (1552-1555). A destra la Concezione del Battista; a sinistra Giovanni che battezza le folle. Sulla volta, negli ovali sono raffigurati Natività del Battista, Danza di Salomè, Decapitazione del Battista e Il capo di Giovanni portato al banchetto di Erode, affreschi di Prospero Fontana, su cartoni del Tibaldi. Sull’altare, pala con il Battesimo di Gesù, di Prospero Fontana, 1561.
L’elegante portale per cui si accede alla gotica sacrestia fa da base al Monumento Fava, (fine Cinquecento). La gotica sacrestia (opera di Azzo di Domenico del 1385) conserva pregevoli armadi di varie epoche.
13 – Cappella Castagnoli-Zanetti, incassata tra i due grandi pilastri esterni del campanile. Si trova qui un polittico, Reliquiario della Vera Croce, di Paolo Veneziano, 1345. Il polittico è diviso in tre fasce orizzontali, che fanno cornice a una reliquia della Croce, contrassegnata dall’iscrizione “Lignum Sancte Crucis D.N.J.C.“) e da tre lunette sottostanti con episodi della vita di San Nicola da Tolentino (mentre libera un impiccato, rianima le pernici servitegli in pasto e celebra una messa per le anime del purgatorio). Nella fascia orizzontale superiore sono raffigurati, da sinistra, San Martino (a cavallo, mentre taglia con la spada parte del mantello che dona al povero), Sant’Antonio abate, San Michele Arcangelo (mentre trafigge il demonio con la spada), San Raffaele Arcangelo, San Luca Evangelista (?) e San Giorgio (a cavallo, mentre uccide il drago con la lancia). Nella fascia mediana sono, a figura intera, Sant’Agostino (benedicente con mitria e libro chiuso), San Giovanni Evangelista (mentre legge un libro aperto), San Pietro (con pergamena e chiavi), San Paolo (con spada e libro chiuso), San Giacomo Maggiore (con pergamena, bastone e veste trapunta di conchiglie) e San Gregorio Magno papa (benedicente con libro chiuso). Nella fascia inferiore, entro le lunette più piccole, sono raffigurati San Domenico, San Marco, San Luca, San Leonardo, San Matteo e San Francesco d’Assisi, tutti con libro chiuso eccetto San Leonardo che tiene una croce e i ceppi dei prigionieri liberati.
14 – Cappella Calcina, dedicata ai santi Cosma e Damiano. Sulle pareti Episodi della Vita di santa Maria Egiziaca, affreschi di Cristoforo da Bologna, della seconda metà del Trecento. Di fronte a questa cappella è una cappella dedicata a santa Chiara da Montefalco (1268 ca.-1308), agostiniana. Cristo che appare a S. Chiara, è pala di Mario Righetti del 1625.
15 – Cappella Cari, dedicata alla Santa Croce. Sulla parete sinistra, grande Crocifisso di Simone da Bologna, detto dei Crocifissi, firmato e datato 1370. Sulla parte destra, Crocifissione, affresco della fine del XIII secolo, staccato dalle arche esterne della chiesa.
16 – Cappella Cantofoli-Diolaiti, dedicata a Sant’Anna. La pala, Sant’Anna insegna a leggere alla Vergine, con san Gioacchino ed angeli, è opera giovanile di Giambattista Grati (1705).
17 – Cappella Malvezzi, dedicata a San Lorenzo. Qui sono collocati gli affreschi staccati dalle celle sepolcrali del portico, tra i pochissimi esempi di pittura tardo-romanica a Bologna (fine del XIII secolo). Nella parete di fronte, due sculture in terracotta: Sepolcro del filosofo Nicolò Fava, (1439) e Sepolcro del medico Nicolò Fava (1483) di Iacopo della Quercia.
18 – Cappella Manzoli, dedicata a San Bartolomeo. Alle pareti i due fastosi altorilievi barocchi con la Decollazione di san Nicolino e Santa Giuliana riceve la comunione da san Petronio opere di Giuseppe Maria Mazza (1681). Sulla parete di fronte, Cenotafio di Alessandro Fava, morto a 19 anni nella battaglia di Lepanto.
19 – Cappella Bentivoglio: rimandiamo alla descrizione soprastante.
20 – Cappella Cartari-Gandolfi. La pala d’altare coi santi Pietro, Paolo e Sigismondo re, é opera di anonimo della seconda metà del sec. XVI.
21 – Cappella Malvezzi-Ranuzzi dedicata a Santa Margherita. All’altare Madonna e santi di Lavinia Fontana.
22 – Cappella Malvezzi. Pala con la Vergine e le sante Caterina e Lucia e il beato Riniero, (1598 circa) di Denijs Calvaert.
23 – Cappella Paleotti, dedicata a San Giovanni Battista, ha una pala con la Vergine in gloria e i santi Benedetto, Giovanni Battista e Francesco (fine Cinquecento) di Bartolomeo Cesi.
Nella cupola della crociera del transetto campeggia un grande IHS raggiante.
24 – Cappella Maggiore – Nella cappella maggiore si è introdotti da un’Annunciazione di recente emersa per i restauri dell’arco trionfale. Fin dal 1574 la cappella fu proprietà dei Riario, trasferitisi a Bologna dall’originaria Savona. Il loro stemma troneggia al sommo dell’arco trionfale, ivi posto nel 1586 quando restaurarono la cappella e costruirono un bellissimo altare di marmo di cui restano solo due specchi inseriti nei fianchi dell’attuale. Nel 1686 la cappella fu ristrutturata da Francesco Albertoni che, nella parte absidale, nascose l’assetto gotico negli stucchi barocchi della grande conchiglia, in cui incorporò le cinque finestre ovali. Egli disegnò anche la cornice del grande trittico, che fu realizzata e dorata da Paolo Ulmelli. I dipinti grandiosi del trittico erano stati già realizzati nel 1574 da Tommaso Laureti, che con slancio poderoso ha rappresentato la Resurrezione di Cristo tra i santi Giacomo e Agostino.
Al centro della Cappella è sospeso il Crocifisso di Iacopo di Paolo del 1426, dipinto anche nel retro, una delle ultime opere del maestro.
Nelle pareti del coro, a destra Gesù che appare a S. Agostino, del fiammingo Michele Desubleo (1601-1676); a sinistra la Visitazione del carraccesco Vincenzo Ansaloni (sec. XVII).
Al centro l’altar maggiore. L’altare dorato nel cui paliotto campeggia una graticola è opera di Silvestro Pozzi (1802) e proviene da S. Lorenzo di Grecchia (ecco le ragioni della graticola) e sostituisce l’altare dell’Albertoni, distrutto in un incendio del 1959.
Sull’altare è collocato un bel polittico del 1420 ca. di Jacopo di Paolo con l’ Incoronazione della Vergine, con un programma iconografico esemplare. Il polittico è sovrastato da una Crocifisssione, con ai lati l’Angelo annunziante e S. Caterina d’Alessandria a sinistra, la Maddalena e la Vergine Annunziata a destra; nell’ordine sottostante sono i santi Giovanni Battista e Antonio abate a sinistra e Lorenzo e Marco a destra.
25 – Cappella Casali-Loiani. La pala col Martirio di santa Caterina d’Alessandria è opera giovanile di Tiburzio Passarotti (firmata e datata 1577).
26 – Cappella Sassoni-Campana. La pala con La Vergine, san Nicola di Bari e le tre giovanette è di Ercole Procaccini (1582). Sul pilastro oltre la porta, è una bella Madonna col Bambino di Pietro di Giovanni Lianori (primo decennio del XV secolo).
27 – Cappella Magnani. Pala con la Presentazione di Gesù al tempio e decorazioni (1575) di Orazio Samacchini.
28 – Cappella Bonasoni-Boari, dedicata a San Nicola da Tolentino. Su frontale settecentesco di Antonio Dardani è il Sacro Cuore di Gesù di Cesarino Vincenzi (1950). Dietro il quadro una statua di S. Nicola da Tolentino.
29 – Cappella Manzini. Il dipinto sull’altare, Sant’Orsola con le compagne (1550 circa), recentemente attribuita a Giacomo Raibolini, figlio del Francia. A sinistra, Monumento sepolcrale di Girolamo Bono, medico e filosofo.
30 – Cappella Vitali-Belluzzi. La Elemosina di san Tommaso da Villanova è opera di Ginevra Cantofoli (allieva di Elisabetta Sirani, Bologna, 1618 – 1672). Monumento funebre del cardinale Girolamo Agucchi, opera in stucco di Gabriele Fiorini, eseguita dopo il 1605.
31 – Cappella Crescimbeni. Sull’altare un San Girolamo, copia eseguita forse nella bottega del Guercino attorno al 1640.
32 – Cappella Magnani. Pala con La Vergine e i santi Guglielmo d’Aquitania, Cecilia e Agata, eseguita attorno al 1580 da Tommaso Laureti. Gli affreschi laterali coi Santi Procolo e Floriano, della maniera del Tibaldi, sono attribuibili a Gianfrancesco Bezzi, detto il Nosadella.
33 – Cappella di proprietà Malvasia e poi Bavosi. Incorniciata da una bella ancona in legno dorato è la Cena del Signore, copia del quadro di Federico Barocci, coeva, che si trova a Roma in Santa Maria sopra Minerva.
34 – Cappella Duglioli. La pala con l’Angelo Custode è di Domenico degli Ambrogi, detto Menghino del Brizio (1626).
35 – Cappella Malvezzi. Crocifisso in legno, col perizoma dorato, della metà del XV secolo con accenti tardo-gotici di ispirazione transalpina.
I Crocifissi in San Giacomo Maggiore
Tre grandi Crocifissi fanno di questa chiesa una tappa importante di un pellegrinaggio ideale ai Crocifissi in Bologna.
Il primo, già sopracitato, si trova a lato sinistro dell’ingresso principale, oggi chiuso: un grande Crocifisso sofferente, di recente restauro, nella Cappella Malvezzi, del sec. XV.
Il secondo di Jacopo di Paolo del 1426, già in una cappella del deambulatorio, la Cappella Castagnoli-Zanetti, incassata tra i due grandi pilastri esterni del campanile, è ora sospeso sull’altar maggiore.
Il terzo si trova nella Cappella Cari, dedicata alla Santa Croce. Alla parete sinistra, il grande Crocifisso di Simone da Bologna, detto dei Crocifissi, firmato e datato 1370. Sulla parte destra, in affresco, una Crocifissione della fine del XIII secolo, staccato dalle arche esterne della chiesa.
Breve storia dei Bentivoglio.
Le vicende del XIII secolo avevano radicato in Bologna la dedizione alla Chiesa(1278): si erano poi succeduti nel tempo il potere dei Legati pontifici, la prima signoria, quella di Taddeo Pepoli, poi quella -odiatissima-dei Visconti di Milano, poi quelle alterne di diverse e sanguinarie fazioni, mentre Bologna restava sotto la mira di Milano e di Firenze, che dopo averla incitata a liberarsi del dominio pontifico mostrava di volersene fare a sua volta dominatrice. Bologna si liberò di tutto ciò 1377 con una incruenta rivoluzione, quando l’estrazione a sorte portò al potere Anziani amici delle arti. Ne nacque un moto popolare, e il popolus, cioè la borghesia artigianale, mercantesca e dottorale, estromise dalla scena politica la grandi famiglie cittadine e fece risorgere il Governo del Popolo e delle Arti. A Roma, dove Gregorio XI aveva ristabilito la sede papale dopo la cattività avignonese, gli ambasciatori bolognesi ottennero per la città un accordo per il quale le fu assicurata un’autonomia così ampia che di fatto era una vera indipendenza; per di più, dopo la morte (1383) del vicario papale -nominato per altro nella persona di Giovanni da Legnano, gradita ai bolognesi – il vicariato fu assegnato temporaneamente – ma fu indefinitamente – all’organo esecutivo del governo comunale, gli Anziani, che venne affiancato da due nuovi organismi collegiali, i ventiquattro Massari delle Arti e i sedici Gonfalonieri del Popolo. Questo governo, detto status libertatis, durò fino all’inizio del secolo XV. Ad esso si deve, alla fine del 1389, la decisione di iniziare a costruire – in segno di gratitudine per la ritrovata libertà (dai Visconti)- un grande tempio in onore del Patrono San Petronio: “Il popolo Bolognese, sollecito di prolungare a perpetuità lo stato popolare e la felicissima libertà largita da Dio, tanto più pregiata per il passato periodo della durissima servitù, il cui ricordo è tuttora vivo, delibera la costruzione di una bellissima chiesa sotto il titolo del beato Petronio, giudicando che la liberazione sia dovuta ai meriti del protettore della città, e pregando che egli si degni di conservare e meglio assicurare lo stato di libertà.”
Si prepararono così i due più floridi secoli di Bologna, il primo dei quali, dal 1401 al 1506 trascorse sotto la signoria di fatto di una famiglia antica, i Bentivoglio. Macellai di origine, iscritti all’arte dei beccai del Duecento, si poterono poi iscrivere a quella dei Notai dal 1294. Quanto abbiano pesato sulla vita cittadina e sull’immaginario collettivo, lo dicono due fatti: la leggenda relativa all’origine della famiglia e la sua fine. Una voce popolare, che la famiglia volentieri accreditava, voleva che il loro capostipite fosse un figlio di Re Enzo e della giovane che gli portava il cibo, alla quale egli avrebbe detto “Ben ti voglio”(donde il nome stesso della casata); quanto alla fine, basti pensare che del palazzo che dava sull’antica Via San Donato (oggi Via Zamboni) – bello tanto da superare quello dei Medici a Firenze- non resta che un segno nella toponomastica bolognese: la Via del Guasto. Questa porta da Via Zamboni a Via Belle Arti, e deve appunto il nome al guasto cioè alla distruzione totale, quasi una damnatio memoriae, che del palazzo si fece a furor di popolo, e iniziato da un Ercole Marescotti che per altro aveva anche fatto parte dei loro governi e ne era stato molto amico.
Alla fine del Trecento Bologna aveva visto una congiura per il ritorno dei Pepoli; Gian Galeazzo Visconti aveva vantato diritti ereditati dallo zio Barnabò Visconti; questi ed altri tentativi suggerirono una modifica della costituzione mirante a offrire strumenti per consolidare sempre più la situazione di pace.
Nel 1394 dunque il Consiglio dei Seicento nominò una magistratura annuale, composta di 4 Anziani, 4 Giudici, 4 Gonfalonieri e 4 Artigiani dando loro potere di mettere in atto, insieme agli Anziani, al Gonfaloniere di Giustizia e ai Massari delle arti tutti i provvedimenti che riterranno opportuni: erano questi i XVI Riformatori dello Stato di Libertà (divennero poi 21, per accontentare più famiglie, pur continuando a chiamarsi XVI). Questi acquistarono grande potere, tanto che esserne il capo voleva dire potersi avviare a esercitare un potere personale.
Il 27 febbraio 1401 Giovanni Bentivoglio aveva occupato il palazzo pubblico, e presentatosi al balcone era stato subito acclamato dal popolo al grido “Viva il popolo e le Arti”; subito venne votato e nominato Gonfaloniere di Giustizia, e il Consiglio dei Quattromila gli confermò il titolo in perpetuo.
Giovanni I Bentivoglio diviene così in pratica Signore della città pur non avendone il titolo: il suo potere durò poco, e nel 1402 già lo perse, fu ucciso e il suo corpo fu abbandonato in San Giacomo Maggiore. Dopo una battaglia a Casalecchio, che vide la vittoria dei Visconti, successivamente a loro volta scalzato di nuovo dal Legato Pontificio, cui di nuovo i bolognesi si erano rivolti in cerca di libertà dai Visconti.
Antongaleazzo, figlio di Giovanni, divenuto Dottore dello Studio, riuscì a riprendere il potere; godeva di grande prestigio, ma non era uomo d’armi né di politica. Nemica gli era la famiglia Canetoli: nel 1420 Antongaleazzo ne aveva ottenuto l’esilio dal Consiglio dei XVI. I Canetoli ricorsero al papa, che finì per inviare un Legato che governasse di fatto la città: ne nacquero rivolte e lotte, chiuse dall’allontanamento del Bentivoglio.
Col fratello Ercole vagò per l’Italia, e fu il primo uomo di guerra della famiglia: riuscì a tornare a Bologna dopo 15 anni di lontananza, ma i soliti nemici ebbero il sopravvento. Finì assassinato, dopo essersi recato dal Legato pontificio e dopo la messa con lui; anche il suo corpo fu gettato nel Tempio di San Giacomo Maggiore.
Ma questa volta l’uccisione non fu gradita al popolo, e ci fu una rivolta cittadina contro gli uccisori, rivolta che vide stragi nelle famiglie responsabili (Gozzadini, Canetoli soprattutto).
Di nuovo fra il pontificato di Eugenio IV e Nicolò V Bologna visse momenti cruciali, culminanti coll’ingresso in città di Nicolò Piccinino, condottiero agli ordini dei Visconti, che si accordò con gli Anziani e con i XVI per ripristinare un governo autonomo di cui avrebbe assunto la difesa.
Tornò così Annibale Bentivoglio, venticinquenne, accolto festosamente dal popolo, e dai Malvezzi, dai Marescotti, dai Bianchetti. Tutto gli pareva propizio, e ebbe in sposa la nipote del duca di Milano, Donnina Visconti.
Fu il figlio di Nicolò Piccinino, Francesco, a vedere in lui un ostacolo al suo desiderio di farsi Signore della città, e con l’inganno lo attrasse fuori da Bologna: lo catturò con l’inganno e lo tenne prigioniero nel Castello di Varano. Si accordarono allora gli amici -i Bianchetti, i Malvezzi e i Marescotti, fra cui Galeazzo Marescotti si distinse per il coraggio, poi cantato fino a Fausto Carpani- per liberarlo. Liberato il Bentivoglio, il Piccinino fu bandito, e Annibale celebrò nel 1447 il suo trionfo, al grido di sega! sega!, ricordando la “sega” di fiamme che compare nello stemma Bentivoglio.
Anche questa volta durò poco: ancora un tradimento, questa volta di Battista Canetoli, che, accordatosi con Battista Ghisilieri e invitandolo a un battesimo lo trasse in nuovo agguato, in cui fu ucciso a pugnalate.
Ma il popolo, avvisato della riuscita congiura, si sollevò, invece che per i congiurati, a far vendetta del Bentivoglio, e non fu bella l’ennesima guerra fratricida per le strade (1445).
Annibale lasciava un figlio di 4 anni: la città voleva un Bentivoglio, e cercò per lui un tutore. Lo trovarono in Toscana, a Poppi, dove viveva Sante, un figlio naturale del fratello di Antongaleazzo, Ercole Bentivoglio. Sante esercitava a Firenze l’arte della lana.
Cosimo de’ Medici intervenne a esortare il titubante Sante a recarsi a Bologna. Fatto cavaliere e Gonfaloniere di giustizia, seppe resistere alle lusinghe della fortuna improvvisa, fu abile capo, si curò seriamente del piccolo Giovanni. Iniziò con lui un periodo di pace, garantito dall’accordo col papa Nicolò V, che durò circa 60 anni, durante i quali si accordarono la libertà politica della città con la dipendenza da Roma.
Bologna pagava tributo alla Chiesa di cui riconosceva il dominio, accettava dal papa un Legato forestiero per l’ordinaria amministrazione della giustizia, gli concedeva una parte delle provvigioni pubbliche e gli giurava fedeltà; ma era libera l’elezione dei magistrati cittadini, libero l’impiego delle entrate pubbliche e la milizia era indipendente. Rimase famosa la formula dell’accordo: nulla il Legato senza il Senato, nulla il Senato senza il Legato.
Sante a 32 anni, nel 1452, quando Giovanni aveva 11 anni, sposò Ginevra Sforza, di 14 anni. Ginevra darà a Sante un figlio, ma Sante lascerà a Giovanni la successione, e Giovanni, dopo la morte di Sante, nel 1462, sposerà la quasi coetanea vedova Ginevra, cui lo legò un profondo affetto che non gli impedì tuttavia di avere, oltre a 11 figli da lei, 20 figli naturali. (L’imperatore, quando Giovanni aveva 18 anni e in vista della Signoria che avrebbe esercitato, conferì a lui, e successivamente al figlio Annibale, la facoltà di riconoscere i figli illegittimi).
Giovanni era stato educato alle armi e al governo, fu uomo di arti e di lettere; a 12 anni l’Imperatore lo aveva insignito del Cingolo di Cavalier Aurato, onorificenza riservata ai principi; a 15 era stato nominato tra gli Anziani; a 18 era stato membro senza voto dei XVI e a 19, morto Sante, fu nel senato con diritto di doppio voto.
Vennero dunque con lui 60 anni di tranquillità e floridezza.
Giovanni ripristinò il navile e ne fece un porto canale “marino”: da Bologna si arrivava a Ferrara e al mare senza scendere dalla nave. Tra gli altri interventi sulla città, notiamo la rettilinearizzazione della Via Emilia (che nel periodo medievale era stata interrotta e abbandonata all’altezza dell’odierna Via Ugo Bassi).
Mantenne il favore popolare, e memorabili furono i suoi tornei in piazza Maggiore, che gli crearono un’immagine splendida tra i Signori vicini; chiamò artisti ad abbellire Bologna (Sante già aveva introdotto contatti col mondo artistico rinascimentale: non dimentichiamo la sua provenienza toscana) e ricordiamo anche solo il Fioravanti, che progettò la ristrutturazione del Palazzo del Podestà, il Palatium Vetus, ben tenendo conto di quanto preesisteva
Realizzò, davanti al suo palazzo iniziato da Sante e da lui completato e abbellito (circa 240 stanze!) l’odierna Piazza Verdi; lastricò l’odierna Piazza di Porta Ravegnana, per favorire il mercato.
Garantì anni di pace alla città; tuttavia il loro governo fu tormentato da congiure che videro coinvolti anche quelli che erano stati amici cari.
Un’ennesima congiura nel 1488 ideata dai Malvezzi scatenò tale vendetta da alienare di molto il favore popolare ai Bentivoglio; la calata in Italia di Carlo VIII li rese protagonisti, ma con il suo successore Luigi XII segnò l’inizio della decadenza. Bologna dovette garantirsi l’indipendenza a prezzo di 43.000 ducati, e il danaro fu raccolto fra la popolazione, in parte restia al contributo.
Giulio II Della Rovere, divenuto papa, comandando personalmente le sue truppe obbligò 30 cardinali a seguirlo fino alle porte di Bologna, di cui intendeva riprendere non solo di nome ma anche di fatto il dominio.
Giovanni II patteggiò con gli assedianti un’uscita onorevole, e si ritirò a Poledrano (l’attuale Bentivoglio) dove aveva un magnifico castello tutt’ora esistente; da lì si portò a Ferrara, da dove non tentò di rientrare.
La moglie, dopo un tentativo di riconquistare la benevolenza del papa, morì nel 1507, e Giovanni la seguì poco dopo.
Si può notare che i Bentivoglio non lasciarono traccia di sé nella Basilica di San Petronio, considerata il tempio cittadino, che tuttavia si avvantaggiò non poco della munificenza con cui i Bentivoglio chiamarono artisti a Bologna. Non estraneo a ciò è forse il curioso episodio con cui Ginevra Sforza si presentò in città per le sue prime nozze col tutore di Giovanni, Sante. Figlia del duca di Pesaro, dodicenne, Ginevra si presentò alle porte di San Petronio ove avrebbe dovuto essere officiato il rito, in mezzo a un grande e lussuoso corteo. Il Cardinale Legato Bessarione aveva però appena emanato un bando contro il lusso -bando che tra l’altro viene sovente preso a riprova delle condizioni di eccezionale benessere che con i Bentivoglio stava godendo Bologna, visto che in esso si finiva per deprecare addirittura lo sfoggio d’oro delle contadine!: tutto l’insieme, e in particolare l’abbigliamento della sposa era ben in contrasto con il detto bando: e il Cardinale fece chiudere le porte della chiesa. Dopo un momento di disordine, il corteo si diresse verso San Giacomo, dove già era stata acquistata la Cappella, e lì furono celebrate le nozze, con raddoppiata festosità.
Santa Rita
Santa Rita nacque nel 1378-79, da agiati contadini di Roccaporena, e fin da piccola si era sentita attratta dalla vita religiosa. I genitori tuttavia la destinarono al matrimonio con un ufficiale, e Rita non volle opporsi per obbedienza. Il marito aveva un pessimo carattere e si attirava inimicizie; Rita pazientemente riuscì ad addolcirlo. Dal matrimonio nacquero due gemelli. L’odio seminato portò poi a una vendetta, e il marito di Rita fu ucciso in un agguato: ancor più grande fu il dolore di Rita quando vide che i figli meditavano a loro volta la vendetta. Eroico fu il suo gesto tramandato dalla tradizione per cui chiese a Gesù di togliere i figli dal mondo piuttosto che cadessero nel peccato. E i due gemelli morirono. Rita dopo di ciò si rivolse alle monache agostiniane di Cascia, che la rifiutarono in primo tempo per timore di essere coinvolte in una faida; quando poi i cognati di Rita perdonarono gli assassini Rita fu accolta nel monastero. La tradizione poi riporta più poeticamente che Rita fu trasportata nel monastero dai suoi stessi protettori San Giovanni Battista, Sant’Agostino e San Nicola da Tolentino, così che visto l’arrivo miracoloso le monache non la respinsero.
Visse in monastero 40 anni, e gli ultimi 15 furono un vero calvario: mentre era in estasi davanti al Crocifisso, una spina della corona le si era conficcata nella fronte, producendole una piaga dolorosa e fetida, che la costrinse a un rigido isolamento (1432).
Nel 1447, il 22 maggio, alla sua morte le campane suonarono senza essere toccate da alcuno.
La tradizione delle rose deriva da un altro miracolo: Rita, inferma, aveva chiesto a una visitatrice che le andasse a cogliere una rosa nel cortile della sua vecchia casa, e si era in inverno: Tuttavia, la visitatrice trovò il cespuglio con due rose fiorite.
Sopra l’altar maggiore Crocifisso
[1] Il vescovo Giacomo Boncambi, con il consenso del Capitolo della Cattedrale, concesse agli eremitani “fratris Jamboni de Zesena”, i cosiddetti “giamboniti” , un terreno fuori dalla cerchia delle mura cittadine per edificare “ecclesiam et locum sui ordinis et religionis citra Savinam”. I Giamboniti confluirono poi nella Grande Unione di diverse comunità unite dalla regola di sant’Agostino, unione che costituì l’ “Ordine degli Eremititani di Sant’Agostino”, Ordo Eremitarum Sancti Augustini (O.E.S.A.), poi , nel 1968, “Ordine di Sant’Agostino”, Ordo Fratrum Sancti Augustini (OSA) e presto non ci fu più alcun riferimento all’eremitismo: ne parliamo comunque dunque d’ora in avanti come degli Agostiniani.